Un anno di COVID-19: considerazioni a un anno di distanza

Non serve ricordarci che stiamo attraversando una pandemia, anzi scommetto che questa parola ormai fa venire i brividi anche a te che leggi. Un anno è passato (anzi, ben 14 mesi) da quando questo incubo è iniziato, vogliamo provare a fare un bilancio di questo periodo?

Una doverosa premessa e qualche considerazione sul “negazionismo della pandemia”

Io non sono un negazionista. Sebbene sia un termine orribile coniato per chi nega lo sterminio perpetrato dai nazisti ai danni degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, ora va di moda usarlo per chiunque neghi qualisiasi cosa e quindi anche per chi nega che stiamo attraversando una pandemia. Secondo me però sarebbe una parola da usare con maggiore cautela, perché così le stiamo facendo perdere il suo significato originario che viene così smorzato.

In particolare i media e il “popolo della rete” usano la parola negazionista per indicare coloro che negano l’esistenza del coronavirus (altro termine scorretto ma purtroppo reso di uso comune da media e politici) e credono sia tutto un complotto. Chi nega l’esistenza del virus è solo uno svitato, un individuo che ha perso il contatto con la realtà e per il quale forse bisognerebbe prendere in considerazione l’idea di cure specialistiche. Quindi ribadisco per i più distratti: il virus SARS-CoV-2 esiste, provoca la malattia respiratoria nota come COVID-19 che in Italia ha provocato la morte prematura di oltre 119.000 persone (dati aggiornati alla data in cui è stato redatto l’articolo, maggiori dettagli nel paragrafo seguente). Ciò che ho notato però è l’incredibile tendenza a dare del “negazionista” a chiunque osi mettere in dubbio l’efficacia delle misure prese fin qui per contrastare la diffusione del virus, ma è scorretto: tutti i provvedimenti sono stati presi in base alle conoscenze scientifiche di un anno fa e sono stati anche in parte dettati dalla paura, ma hanno avuto e hanno ancora un costo sociale elevatissimo. Secondo me invece sarebbe sano e normale che ci fosse un dibattito per capire cosa allentare e come farlo, almeno per limitare il più possibile i danni che a oltre un anno dall’inizio del “contenimento” sono diventati ingenti e peggiorano di giorno in giorno.

Davvero non c’è alternativa? Davvero le famose misure non possono essere razionalizzate per diminuirne il più possibile il peso sulla popolazione pur mantenendo massima l’efficacia? Sinceramente non lo credo affatto: tutto può essere razionalizzato e migliorato, misure di contenimento comprese, ma in questo clima di caccia alle streghe è del tutto impossibile. Chiunque provi a sollevare un dubbio è immediatamente zittito con l’accusa di “negazionismo”. «Le misure sono giuste, lo dice la Scienza!» si ripete sui media, ma un simile modo di fare è quanto di più lontano esista dalla vera scienza. La Scienza non è fatta di dogmi e di certezze indiscutibili, anzi il dubbio è il motore che le permette di progredire, ma nel caso delle misure contro il virus sembra proprio che tale motore si sia inceppato perché qualcunque sana discussione sul virus e sul modo di mitigarlo è bloccata sul nascere. A un anno di distanza ci si dovrebbe chiedere: le misure stanno facendo più danni della malattia? Da un certo punto di vista sembrerebbe proprio così: non possiamo continuare a vivere chiusi in casa, privi di ogni forma di interazione sociale o di svago perché una vita simile fa danni alla salute. Non è un paradosso assurdo che per proteggere un aspetto della salute sia necessario danneggiarne altri? E questi danni potremmo portarceli dietro anche dopo anni dalla fine della pandemia. Le “misure” hanno anche devastato l’economia del paese e credo che sia necessario limitare i danni al massimo perché abbiamo bisogno anche di un’economia florida e funzionante per poter curare queste e altre malattie.

Come tutto è inziato

Solo un breve riassunto per ricordarci come siamo arrivati qui.

Nel mese di novembre del 2019 un nuovo coronavirus (cioè una categoria di virus in cui si conoscevano già altre 6 specie) chiamato SARS-CoV-2 ha iniziato a diffondersi nella città cinese di Wuhan, da lì è arrivato in tutto il mondo nel giro di pochi mesi. In Italia i primi casi furono due turisti cinesi, che sono stati ricoverati a Roma il 30 gennaio 2020 e l’esecutivo di allora dichiarò lo stato di emergenza nazionale il 31 gennaio. I primi casi “indigeni” furono scoperti a Codogno (Lodi, Lombardia) il 21 febbraio 2020; non si è mai riusciti a capire come il virus sia arrivato in Italia dato che le analisi genetiche hanno accertato che le particelle virali trovate non erano direttamente imparentate con quelle estratte dai due turisti cinesi (che sono sopravvisuti dopo giorni in terapia intensiva presso l’istituto Nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma). Da allora i casi sono arrivati a 3.962.674, mietendo 119.238 vite; questi dati sono aggiornati al giorno cui questo articolo è stato scritto, cioè il giorno 25 Aprile 2021, e sono consultabili aggiornati qui.

Il vero incubo è iniziato il 9 marzo 2020, quado l’allora presidente del consiglio dei ministri, Giuseppe Conte, emanò un provvedimento (il primo dei famosi “DPCM”, cioè “Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri”) che obbligava tutta la popolazione italiana a restare in casa, chiudendo anche d’imperio tutte le attività giudicate “non essenziali” e imponendo il lavoro da casa tramite strumenti telematici per chiunque potesse effettuarlo. Tutto ciò è noto a tutti con il bruttissimo inglesismo lockdown. A tal proposito vorrei sapere per quale motivo ci si ostina ancora oggi a usare sempre e solo termini in inglese, ma noi non abbiamo una lingua ufficiale? Inoltre anche la scelta dell’uso dei DPCM secondo me è stata pessima, primo perché ha stirato al massimo la Costituzione, strappandola anche un pochino, e secondo perché ha concentrato un potere eccessivo nelle mani del Presidente del Consiglio dei Ministri. Il nostro ordinamento prevedere il decreto legge come strumento di legislazione di emergenza, penso che usare un’altra cosa per fare lo stesso sia stato un inutile danno all’architettura istituzionale del nostro paese.

Non serve andare oltre con il racconto, perché tutti conosciamo bene cosa sia successo nell’ultimo anno in cui le nostre vite sono state stravolte con la forza dai DPCM, ci basta sapere che a 14 mesi di distanza l’incubo non è ancora finito e non si sa quanto perdurerà ancora.

Come sono cambiate le nostre vite

In una parola, potremmo dire che le nostre vite sono cambiate in peggio. Ma non voglio essere presuntuoso e parlerò solo per me.

Prima del 9 marzo 2020 la mia vita era piuttosto normale:

  • Andavo in ufficio 5 giorni a settimana con la metropolitana.
  • Facevo tutti i giorni la mia camminata a passo veloce, per non arrivare tardi sul mio posto di lavoro e al contempo per fare attività fisica (non mi è mai piaciuto usare l’automobile per questo genere di spostamenti).
  • Socializzavo con i colleghi nel corso delle pause.
  • Durante il tempo libero avevo una vita sociale normale e mi dedicavo a miei passatempi preferiti, come per esempio la fotografia naturalistica.
  • Qualche volta consumavo qualcosa in un bar, spesso durante episodi di socializzazione.
  • Mi piaceva mangiare al ristorante, di solito un paio di volte al mese, meglio se in compagnia. Ordino cibo a portar via molto raramente, proprio perché mi piace l’idea di recarmi in un locale che qualcuno ha appositamente realizzato per accogliere i clienti e permettere loro di consumare il cibo preparato sul posto. Secondo me la ristorazione non è solo il soddisfacimento di un bisogno primario, ma è più un’esperienza.
  • Non mi è mai particolarmente piaciuto fare i miei acquisti in rete, anzi ogni volta che potevo mi recavo sempre in un negozio per effettuare fisicamente i miei acquisti.
  • Non ho mai amato particolarmente il telefono o le videochiamate, anzi preferisco avere un’interazione diretta con le persone e non mediata da dispositivi elettronici.
  • Mi piaceva anche andare al cinema, sebbene lo facessi raramente dato che non sono molti i film sui sono interassato. Vedere un film in streaming da casa non è e non sarà mai la stessa cosa.

Insomma una vita piuttosto normale e riguardo gli ultimi quattro punti posso dire che, per quanto internet sia uno strumento estremamente utile, esso non può e non potrà mai sostituire la vita reale. E spero che in seguito al trauma della pandemia molte più persone ne siano consapevoli e abbiamo imparato il valore dell’interazione diretta con i nostri simili.

Dopo il 9 marzo 2020 non è rimasto nulla di questa vita. Ora passo il mio tempo dentro una stanza e davanti a uno schermo; le uniche interazioni con i solleghi sono per via telefonica, cioè si sono trasformati in voci immateriali. Ogni attività di svago che a me piaceva è stata vietata o fortemente limitata, mi è permesso solo lavorare e posso uscire di casa solo per necessità o per fare attività fisica, perché anche nelle zone a minor restrizione resta comunque il “forte consiglio di stare in casa il più possibile”. Ora vivo affogato nella plastica, sono costretto a respirare attraverso una mascherina che mi impedisce di vedere bene (porto gli occhiali, l’appannamento per me è un grosso problema e no: nessun preparato commerciale mi ha aiutato a risolverlo) e cancella il mio volto e quello di tutti coloro che incontro quando esco di casa. È vero che in alcuni momenti le “misure” sono state allentate e ho potuto ritornare a vivere un pochino, ma sempre con la minaccia da parte delle autorità di richiudere nuovamente tutto al risalire dei contagi. Cosa che è puntualmente avvenuta più di una volta e la responsabilità è sempre stata scaricata sui “cittadini irresponsabili che non rispettano le norme”. Nessuno sembra aver mai considerato l’ipotesi che le “misure” possano essere state inefficaci o almeno molto meno efficaci di quanto si pensasse quando furono introdotte.

Ovviamente non ho la pretesa di dire che la mia vita sia un buon campione che rappresenti le vite di tutti gli italiani, porto la mia esperienza semplicemente come esempio. Tuttavia credo che possiamo tutti convenire sul fatto che la vita di tutti noi sia notevolmente peggiorata, per alcuni di più e per altri di meno, ma in generale si sta molto peggio rispetto al 2019.

Conclusioni

Sinceramente a un anno di distanza mi sento scoraggiato e stanco. Un po’ perché questa maledetta pandemia si rifiuta di finire, e un po’ perché perdura anche il clima di caccia alle streghe che non permette un sano dibattito sulle misure di contenimento. Anzi, a me sembra che nessuno abbia pensato che, prima o poi, questa storia dovrà avere una fine; secondo me nessuno si è posto il problema di come uscire da questa emergenza, perché non può certo essere eterna. C’è una strategia di uscita? Qualcuno a pensato a un piano per allentare le “restrizioni” per farci riconquistare le notre vite? Sinceramente la mia impressione è che nessuno ci abbia pensato, ma ovvio che questa pandemia avrà una fine come tutte le altre che l’hanno preceduta.

E non è tutto, perché oltre a questo i media ci bombardano quotidianamente con notizie terrorizzanti su ulteriori chiusure imminenti, nuove varienti del virus ancora più letali e inarrestabili, vaccini che non funzionano e uccidono… e tanto altro. Siamo indubbiamente di fronte a una tragedia che la storia ricorderà, come le due guerre mondiali o l’epidemia di “influenza spagnola” che fece decine di milioni di vittime tra il 1918 e il 1919 (epidemia che, tra l’altro, è stata ben peggiore di quella attuale), ma questa non è affatto la fine del mondo. Capisco che sia difficile da accettare, specialmente per coloro che hanno perso qualcuno per colpa della malattia, ma questa è “solo” una delle migliaia e migliaia di pandemie che la nostra specie ha attraversato nei suoi 200.000 anni di esistenza. Questa, esattamente come tutte le altre, avrà una fine. Ma i soliti media, sia tradizionali che via internet, preferiscono terrorizzare tutti trasformando un’immane tragedia in un brutto film post-apocalittico di serie F in zona retrocessione.

Ho scritto questo articolo perché dopo così tanto tempo sento il bisogno di condividere le mie riflessioni con qualcuno, perché le tengo per me da troppo. A lungo ho rimuginato e riflettuto se fosse il caso di esporsi visto il clima di caccia alle streghe, ma alla fine il bisogno di esprimersi ha preso il sopravvento perché ora so che, come me, in tanti vorrebbero essere ascoltati da chi di dovere.

So che il numero di vittime dell’epidemia è stato enorme, ma sono anche giunto alla conclusione che dopo ben 14 mesi queste “misure” inizino a somigliare più a un lento suicidio che a una cura. Dopo così tanto tempo è chiaro che questo approccio non possa essere più mantenuto a lungo, perché ormai la malattia COVID-19 esiste e non scomparirà. Tanto vale farcene una ragione e agire di conseguenza verso una ricostruzione delle nostre vite, cauta e lenta quanto si vuole, ma che sia irreversibile. La scienza, quella vera, ha prodotto e sta producendo vaccini e cure efficaci contro il SARS-CoV-2, quindi c’è una speranza ben più che concreta di tornare alla normalità com’era fino al febbraio 2020. Basta catastrofismi! Quello che serve in questa fase è una razionale speranza di uscirne.

Ecco, questi sono i miei pensieri sulla pandemia. Spero di non essere divorato dal “popolo del web” per averli pubblicati e soprattuto spero di non essere additato di negazionismo per queste mie considerazioni. Prossimamente, tempo permettendo, penso che proverò a parlare anche di altri aspetti della pandemia.

Ivan Berdini

Zoologo e appassionato di fotografia